«(…) Un brav’uomo va in un’isola - è molto ricco e può andare dovunque - e conosce un mostro. Lo prende come cosa possibile, e vorrebbe reintegrarlo - suppone ci sia stata una caduta - nella società umana, anzi borghese, che ritiene il colmo della virtù. Ma si è sbagliato: perché il mostro è un vero mostro anzi esprime l’animo puro e profondo dell’Universo di cui il signore non sa più nulla, tranne che è merce».
Così Anna Maria Ortese riassume le vicende de L’Iguana.
Le parole si trovano tra gli scritti raccolti in Corpo Celeste ed è lì che svela e racconta anche la necessità e l’urgenza di mettere in discussione la superiorità dell’uomo sulla natura e il rapporto tra intelligenza umana - troppe volte strumento in mano a una singola porzione di mondo - e ragione universale, garante della dignità del creato.
L’Iguana è quel confine fragile tra umanità e bestialità dell’uomo e nell’uomo.
A più di cinquanta anni dalla pubblicazione, è ancora un libro difficile che porta con sé qualcosa della fecondità della matrioska e del mistero delle scatole cinesi e, sarà per tutti i significati annidati nel testo, che poco si presta a una lettura leggera o alle estrapolazioni e alle sintesi degli aforismi. Anna Maria Ortese non ha mai venduto né molto, né a tutti, eppure, quando ci si imbatte ne L’Iguana, non ci si riesce più a disincagliare da quel porto dove la poesia e i rimandi autobiografici coincidono nella favola e nella storia del suo protagonista: «(…) sentì che il suo viaggiare era stato immobilità, e ora, nella immobilità cominciava il vero viaggiare. Sentì poi che questi viaggi sono sogni, e le iguane ammonimenti. Che non ci sono iguane, ma solo travestimenti ideati dall’uomo allo scopo di opprimere il suo simile e mantenuti da una terribile società. Questa società egli aveva espresso, ma ora ne usciva. Di ciò era contento».
Architetto senza troppe doti che lo facessero brillare nella società della Milano da bere e per bene, il conte Carlo Ludovico Aleardo di Grees dei duchi di Estremadura, detto Daddo, viene inviato per mare, dalla madre, a cercare terre su cui speculare. Il viaggio, in questa storia, è un atto di conquista. Nessuna curiosità filantropica, solo espansione di un modello economico che tende a moltiplicarsi per rafforzarsi.
A giustificare il viaggio, si aggiunge anche la sfida lanciata dall’amico editore Adelchi circa la possibilità di scovare un manoscritto inedito che possa destare un qualche interesse tra i lettori annoiati e sempre alla ricerca di amenità: «(…) tu che vai viaggiando, Daddo, perché non mi procureresti qualcosa di primitario, magari d’anormale» come, ad esempio, le vicende di un pazzo che si innamora di una Iguana. A neanche venti pagine dall’inizio, i crinali delle politiche editoriali e dell’industria culturale e del turismo appaiono così: crudi e semplici come la cronaca di un quotidiano assodato, impossibili da rovesciare ma da cui è necessario deviare. La narrazione non denuncia, piuttosto è constatazione. Tutt’altro che disperante, trova consolazione in logos inusuali (come cantine, lavatoi, pegni d’amore di nessun valore, vezzeggiativi e colori cangianti) e si serve di una grammatica capace di moltiplicare i contenuti esplodendoli in mille sottotesti: nelle parentesi, negli incisi e nelle numerose subordinate. Per dirla breve, L’Iguana è difficile perché è un libro densissimo.
Ogni descrizione è minuta e serve al racconto ma prende anche in giro se stessa, a partire dai nomi altisonanti ridotti a nomignoli o dalla descrizione di alcuni paesaggi, lirici e subito stucchevoli, ridotti a essere i fondali di una atmosfera da acquario. Ogni elemento che si somma alla trama mette il lettore in allerta. Lo invita a cercare l’errore, ad attendere un rovesciamento di senso, a capire perfino, a volte, quale sia l’eroe e l’antieroe.
Daddo si imbarca e si imbatte in un’isola sconosciuta a forma di corno, Ocaña, una volta fastosa e splendida, oggi abitata da don Ilario Jimenez della casata dei Guzman, insieme con i due fratellastri, Hipolito e Felipe. Ilario, un giovane (almeno così appare all’inizio) bibliofilo appassionato letterato, si muove tra le quinte di giardini trascurati, palazzi in cattivo stato, soffitte polverose e sogni tenuti nel cassetto troppo a lungo per essere davvero desideri. Cerca di distrarsi dalla decadenza della sua condizione e dall’abbrutimento cui sembrano condannati i fratelli (quasi del tutto privi di parola, almeno all’inizio) con lo studio e l’esercizio delle lettere (almeno all’inizio).
A sparigliare tutto quello che è ancora plausibile compare un mostro, inerme e innocuo; una «bestiola verdissima e alta quanto un bambino, dall'apparente aspetto di una lucertola gigante, ma vestita da donna». Insieme all’iguana prende piede un’inquietudine - nel lettore - prima ancora che nel protagonista, «la sensazione costante di trovarmi in un luogo ignoto, non mio assolutamente, e della cui serenità sono anch’io, in qualche modo responsabile». (da Corpo celeste)
L’iguana, Estrellita, diventa il simbolo di quegli umili di cui le classi più abbienti dovrebbero assumerne il carico e la responsabilità civile prima che morale. Cattura le attenzioni di un Daddo talmente sensibile da mutare la sua curiosità in amore. Egli, a sua volta, a tratti ridicolo ma forte della sua posizione sociale, del suo sentimento e delle sue ragioni, vuole salvare l’animale sposandolo e conducendolo a Milano. Ma quella stellina non vuole essere salvata, né vuole abbandonare l’isola, né vuole sposare Daddo. L’iguana intrepreta la sua bestialità rassegnandosi alla deprivazione e alla subalternità e continua a struggersi per il marchese Ilario.
La mostruosità della relazione tra uomo e bestia viene assunta come un fatto possibile. Di contro, un’ombra gigantesca aleggia di continuo: la ricerca di un senso di tutte le cose che accadono in questa storia. Una ricerca che quasi mai ha un esito positivo ma che implica lo sforzo - troppo spesso eluso dalle figurine che compaiono nel romanzo - di essere presenti a se stessi e, soprattutto, di voltarsi indietro a rileggere la propria storia. Tutto, invece, sembra spinto avanti da un unico desiderio: non soffrire più, anche a costo di desiderare niente di diverso da quello che le convenzioni dettano: «una coscienza decapitata, ecco la nostra coscienza umana». L’iguana si rassegna alla subalternità, Daddo si rassegna a viaggiare spinto da fini merceologici e speculativi. Ilario si rassegna al suo isolamento. Ocaña, l’isola, non è un paradiso, ma un giardino in cui tutti sono caduti e decaduti. «La caduta avviene quando la cultura smette di essere luogo di memoria e smette di essere eterna aratura e diventa raccolto. Il raccolto solo, subito gratis e per sempre.» (da Corpo celeste): è quanto dimostra lo sbarco sull’isola della famiglia Hopins. L’arrivo, insospettabile per il lettore ma atteso dai fratelli Guzman, rompe il corso degli eventi in una direzione inattesa: la famiglia americana - come i capitali stranieri che negli anni Sessanta sbarcavano in Europa per finanziarne i progetti industriali - è interessata alla acquisizione dell’isola e del titolo nobiliare. Ilario è destinato al matrimonio con la figlia bionda, silenziosa, affascinante e un po’ scialba. Per Daddo sfuma il suo mandato affaristico; gli rimane ancora aperta la seconda sfida, quella di trovare un manoscritto su un pazzo innamorato di una iguana.
Se, fino all’arrivo degli Hopins, è possibile conservare ancora qualche incertezza, con l’arrivo dell’arcivescovo «nero» al seguito degli americani, tornano forti le gerarchie e le categorie della cultura dominante e svaniscono i dubbi: per l’alto prelato, l'iguana è l'incarnazione del male. Estrellita, che si racconta fosse stata trattata come «gentile e affascinante figliolina», è messa al bando e, come «un vero serpente», viene estromessa dal paradiso e dal circolo degli affetti umani. La solitudine diventa dannazione: Ilario vuole sposarsi e abbandonare l’isolamento e l’isola; Daddo, invece, vuole salvare l’iguana. Dunque, pare che il libro da proporre all’amico milanese Adelchi, per incrementare il mercato editoriale, sia proprio quello che stiamo leggendo.
Il dramma è che non si riuscirà mai a dire per davvero perché e cosa amassero Ilario o Daddo nell’Iguana se non ad ammettere che quando si ama, si ama tutto, anche la bestialità altrui. Non c’è niente di male ad amare una iguana perché il male non deriva dalla deprivazione (economica) ma «è solo quello recato per una errata valutazione - lo sbaglio - a se stessi». E spesso lo sbaglio è pensare che tutto - anche un amore - possa essere sostituito non appena termini la sua funzione: la scimmia Perdita ha distolto Ilario dalla madre; l’iguana lo ha distolto dalla morte della scimmia; a sua volta, l’iguana viene sostituita dalla nuova moglie con la promessa di un engagement sociale. Privo di qualsiasi dimensione sentimentale e del tempo psichico necessario alla elaborazione, questo passaggio per Ilario non è altro che l’esemplificazione dell’uso e della funzione materiale della rappresentazione amorosa. L’illusione che cercare sempre qualcosa di nuovo (rispetto al noto) possa garantire la felicità è la menzogna diffusa contro cui la Ortese si scaglia. È in questa continua sostituzione, e dietro questa strana storia d’amore e di pena che lega più uomini a una iguana, che trova espressione la critica profonda al sistema capitalistico; in fondo, «ciò che abbisogna. Ecco ciò che è reale».
La cosa strana è che - arcivescovo a parte - niente o nessuno sembra mai lo stesso. È tutto un guardare, un sentire e poi voltarsi al passato per essere certi di essere ancora gli stessi ma senza una reale consapevolezza di ciò che si è diventati. Un delirio in cui reale e irreale si fondono nell’incantesimo dei luoghi e delle situazioni. Anche i personaggi cambiano carattere, età, aspetto: non si è mai sicuri se a tratteggiare le prime figure abbiano contribuito le reminiscenze dei romanzi dell’ottocento inglese o del romanticismo tedesco o sia stato un trucco della Ortese per continuare a viaggiare sull’isola senza alcun punto di riferimento. Anche l’iguana si trasforma in vecchina, giovinetta, domestica, amante, aguzzina ma, incurante, continua a mostrare l’anima bestiale e irrazionale del suo essere primitivo e per questo comunque amabile. «Inaudito» dirà del libro Pietro Citati a vent’anni di distanza dalla prima edizione ed è ancora così, anche cinquanta anni dopo.
Sul finire, Daddo inciampa nei suoi deliri e muore affogando in un pozzo. Eppure, morto il protagonista niente è perduto, anzi. In fondo, se (e avviene a circa metà del libro) si assiste al processo che sanciva la morte di Dio e il mondo è rimasto in piedi, la morte del protagonista non chiude le vicende, piuttosto ne sblocca la loro evoluzione, fino alla fine che, nel paradosso, è quasi un lieto fine per tutti tranne che per chi è morto e non esiste più.
Conan Doyle scriveva che «togliendo l’impossibile, quello che rimane, per quanto improbabile, deve essere la verità». Ecco, l’Ortese fornisce gli elementi per ridurre l’impossibile, incastonandolo nelle questioni del quotidiano e ricorre alla dimensione fantastica per rendere lecito tutto ciò che è possibile anche quando improbabile, come trovare una iguana innamorata su un’isola.
Con L’Iguana si cade (esattamente come accade per l’Alice di Carroll). La caduta porta al centro del mondo e dei suoi meccanismi pur essendo, di fatto, alla sua estrema periferia. Una sorta di gentifrication letteraria e ante litteram dove la periferia è un’isola portoghese che si «muove impercettibilmente». Una sorta di simbolo posto al di là delle classiche colonne d’Ercole, oltre le quali si trova ancora qualcosa di centrale per la ragione dell’Uomo, come il dolore di un amore non ricambiato e l’ingiustizia agita nei confronti degli altri.
L’iguana era una sfida; una sfida persa, come lei stessa racconta - avendo venduto 1990 copie nei primi cinque anni.
Era una sfida difficile, lanciata dai bordi del mondo, lì dove stava lei e da cui, come Daddo, esercitava quel sentimento sottile e doloroso che è il rispetto dell’altrui dignità. Al di là di tutte le considerazioni che si possono fare sulla dimensione onirica, sullo straniamento, sugli inviti al lettore, l’unica cosa sensata da dire è che L’Iguana affronta temi oggi ancora irrisolti, come i rapporti di forza tra ricchi e poveri, lo sfruttamento, l’assenza di dignità e amore che conducono alla morte e all’esilio, la menzogna dell’autoaffermazione a qualunque costo come formula per raggiungere livelli di godimento sempre più vicini alla felicità.
«C’è molto dolore nel mondo, (…) perché l’irreale - il non conosciuto - è assai più profondo. Mille ragioni, di Stato o pratiche, vi si oppongono. Non per malvagità, ma perché a quelle condizioni che mantengono il disordine su cui cresce il dolore, sono legati innumerevoli interessi, anche di cultura o vecchia cultura; quindi di autorità. Quando per esempio dai il mondo come spiegato - per così dire: naturale - ci edifichi sopra le cose degli uomini. Quando lo dai come inspiegabile, cioè innaturale e lo definisci come visione del fuggevole, ci edifichi l’uomo. Non è una differenza da poco. Edificare l’uomo è gratuito. Edificare le cose (dell’uomo e sull’uomo) porta compensi molto altri, non solo economici. Ma perde l’uomo.» (da Corpo Celeste)
Benedetta Sonqua Torchia
Illustrazione di Veronica Leffe
Testi citati:
L’Iguana, Vallecchi (1965); Adelphi (1986, 10ª ediz.)
Corpo celeste, Adelphi (1997)