Who's that white guy?
15 ottobre 1968
«Norman, non badare a me».
Peter cammina davanti ai blocchi della corsia 7, inspira col naso, soffia via l’aria con la bocca. La curva da lì appare molto larga e quindi, pensa, la dovrà tagliare in maniera decisa. Torna a controllare i blocchi, la distanza tra le placche, fa qualche saltello e solo a quel punto sente di nuovo la voce.
«Norman, ora che partiamo non mi guardare, ok?»
Si tratta dell’italiano Ippolito Giani, detto Ito, col quale Peter Norman si è allenato nei giorni precedenti. Peter sa che Giani è in forma, conosce i suoi tempi sui 100 e sui 150, ma non sa che gli hanno iniettato un’intera dose di novocaina nel bicipite femorale della coscia destra.
«Uscendo dai blocchi non mi guardare, ché mi sono stirato. Mi fermo subito, mi ritiro dopo lo start. Quindi, non tenermi gli occhi addosso, ok?» dice l’italiano, e Peter pensa che una strategia per distrarre l’avversario come quella non l’aveva mai sentita e che ora gli sarà impossibile non guardarlo. Indietreggia sui blocchi, prova la posizione dei piedi, questa cosa di Giani lo sta facendo innervosire, lui che sa come gestire le gare dal punto di vista psicologico.
«Dico davvero» riattacca l’italiano, fermo in ottava corsia. «Non mi sono ritirato prima solo perché così, un giorno, potrò dire ai miei nipoti di aver partecipato a due Olimpiadi e non a una soltanto».
Peter non ha più tempo per dargli retta, scuote la testa, sente il battito cardiaco aumentare, sa che il momento è quasi arrivato. È la sesta batteria del primo turno dei 200: si qualificano i primi quattro più i ripescaggi tra i migliori esclusi, quindi con un tempo attorno ai 21’’ netti dovrebbe farcela. Nonostante sia un tempo ampiamente alla sua portata, in quel momento la voce interiore gli dice una cosa soltanto: non puoi arrivare ultimo, scordatelo, vai a mille e non arrivare ultimo.
Il fischio singolo invita gli atleti a posizionarsi. Per non creare incomprensioni tra i corridori, a Messico ’68 i comandi vocali erano stati sostituiti da quei suoni: uno per ai vostri posti, due per pronti.
Peter schiaccia il piede sinistro sulla placca con la punta della scarpa staccata dalla pista, sarà quello il piede di spinta. Sotto i polpastrelli sente la superficie morbida del tartan. Il segnale con il doppio fischio ha il potere di annullare ogni altro rumore e visione che lo circonda, a eccezione del rosso della pista, che invade la sua visuale ora che ha gli occhi puntati verso il basso. Conta i tre secondi che precedono il successivo segnale. Mille-e-uno, mille-e-due, conta così, mille-e-uno, mille-e-due, ma tutto è infinitamente più lento. L’udito diventa un organo interno che collabora a equilibrare ogni cosa. Sul mille-e-due inspira col naso. I miei nipoti, pensa per un attimo. Che figlio di… Mille-e-tre. Bang!
L’adrenalina schizza dalle ghiandole surrenali, coronarie e polmoni si dilatano irradiando i muscoli striati di sangue e ossigeno, mentre quelli lisci si rilassano. Il sistema nervoso centrale è invaso dall’eccitazione, la pupilla si espande e ogni percezione è profondamente emotiva: il cervello ha elaborato il segnale di paura della preda, o l’ansia di prevalere del predatore. In entrambi i casi il corpo è predisposto alla perfezione per una sola azione: correre. Fight or fly, combatti o fuggi: è l’automatismo ancestrale che s’impadronisce dell’animale-uomo prima e durante la corsa, lo stesso che accomuna gli atleti olimpici agli studenti messicani che in piazza delle Tre culture, il 2 ottobre 1968, dieci giorni prima dell’inizio delle Olimpiadi, corrono per sfuggire ai proiettili che piovono da tutte le direzioni: da quattro postazioni nei palazzi circostanti, dagli elicotteri e dagli agenti in piazza. Una corsa, questa, che non ha nulla del controllo e della preparazione fisica dell’atleta, con frequenze cardiache che sfondano i 140 di massima e il corpo che agisce in maniera quasi autonoma.
Quella del 2 ottobre era stata una delle tante manifestazioni che avevano bloccato il paese nell’ultimo anno, in seguito alla richiesta di rinnovamento politico e istituzionale partita dalle facoltà universitarie. Il presidente Gustavo Díaz Ordaz aveva fatto sapere all’ambasciata degli Stati Uniti che era tutto sotto controllo, che il sistema di sicurezza in vista degli imminenti Giochi olimpici sarebbe stato impeccabile. Ma, dal Dipartimento di difesa americano, la pensavano in maniera diversa. In un report informativo del 24 settembre [numero identificativo cancellato], veniva esplicitamente detto che «l’occupazione dell’università statale Unam da parte dell’esercito messicano era stato un gravissimo errore strategico, che l’impiego di diecimila militari era spropositato, che questo atto avrebbe creato forza e aggregazione a livello nazionale rispetto al movimento studentesco». Il capo dell’FBI, John Edgar Hoover in persona, firmava una nota indirizzata al presidente degli Stati Uniti Lyndon Johnson in cui avvertiva che «la situazione rappresentava un serio rischio per la tranquillità necessaria al normale svolgimento dei Giochi olimpici» [Bureau file 62-112471]. Il governo messicano non era più ritenuto «in grado di gestire la sicurezza del paese» [CIA IN 87410]. Bisognava agire, e la manifestazione di piazza delle Tre culture, in zona Tlatelolco, sembrava perfetta per esercitare il piano: la partecipazione era stimata attorno ai cinquemila manifestanti, quindi piuttosto contenuta; l’informativa proveniente dagli agenti infiltrati dava per certa la presenza di studenti del servizio d’ordine provvisti di armi, adatti a rivestire i panni di capro espiatorio per la stampa estera; e poi quei guanti bianchi da far indossare agli agenti messicani in borghese al momento dell’attacco, come segno di riconoscimento. Aumento della frequenza cardiaca, bronco dilatazione, flight or fly, combatti o fuggi. Fuggi o muori. Oppure muori e basta.
Bang! Allo sparo Peter esce forte, con la gamba destra in avanti. I primi appoggi sono molto laterali, a cercare una maggiore spinta. Alza subito la testa sprecando un po’ dell’accelerazione iniziale, ma l’uscita dai blocchi non è il suo punto di forza. Bilancia questi difetti con un’ottima compattezza di corsa, con l’alta frequenza del passo e una stabilità del bacino praticamente perfetta. Corre molto vicino alla linea interna della corsia, entra in curva tagliandola più che può. Con l’occhio sinistro vede tre sagome, con il destro nessuna. All’intersezione delle linee, sui cento metri, Torres gli sembra già più lento, mentre resistono il campione europeo Bambuck e il britannico Steane che risale dall’interno. Ma Peter sa di non aver ancora aperto l’accelerazione, lo aspettano altri ottanta metri di rettilineo, i suoi preferiti, perciò aumenta la frequenza e la spinta muscolare pur riuscendo a rimanere compatto e ben allineato. Mentre Bambuck e Steane si perdono da qualche parte dietro la sua visuale, Peter taglia il traguardo in 20’’23, quaranta decimi sotto il suo miglior tempo. È il nuovo record australiano. Il nuovo record olimpico. Peter Norman è andato più veloce del 20’’37 fatto registrare un’ora prima da Tommie Smith nella seconda batteria. No, non è arrivato ultimo.
«La cosa più importante in quella gara, per me,» avrebbe commentato molto tempo dopo «fu che il corridore italiano che era in ottava corsia mi avvertì di essere infortunato. All’inizio non gli avevo creduto, ma subito dopo lo start si fermò, fece giusto due passetti e si ritirò. Io ero in settima e avevo solo lui davanti che potevo guardare. Se non mi avesse detto nulla, avrei pensato a una falsa partenza, mi sarei fermato anch’io ed ecco fatto, sarei finito fuori con lui e fine della storia».
Invece Peter accede ai quarti di finale stravolgendo tutte le previsioni dei commentatori, della stampa di settore, e perfino degli scommettitori.
Che Smith e Carlos occuperanno i primi due gradini del podio è ritenuto un fatto assodato. C’è chi ha viva nella memoria la recente vittoria di John ai Trials di South Lake, quella del record non convalidato, ma c’è anche chi confida nella costanza di Tommie, capace di prestazioni eccellenti anche quando bisogna correre quattro gare in due giorni.
Dopo il record olimpico in batteria, gli addetti ai lavori, gli avversari e lo stesso capo allenatore australiano Ray Weinberg, sono però costretti a ritenere Peter Norman un candidato ai primi cinque posti della finale, anche se nessuno pensa che possa arrivare al podio. Il terzetto più quotato è ancora quello a stelle e strisce, con John e Tommie a contendersi le medaglie più preziose e Larry Questad, il più veloce tra i bianchi, ad accontentarsi del bronzo. Al massimo possono inserirsi il francese Bambuck, il giamaicano Mike Fray oppure il quotatissimo Edwin Roberts, di Trinidad e Tobago. Se alla fine di questa due giorni Peter Norman sarà arrivato quinto o sesto, dovrà ritenersi più che felice. Intanto, nel pomeriggio, l’australiano chiude al primo posto anche il suo quarto di finale, dimostrando di essere il più veloce tra gli atleti bianchi con 20’’44. Anche Smith e Carlos hanno vinto il loro quarto, con Tommie che è andato addirittura a eguagliare il fresco record olimpico di Peter, concedendogli questa gioia solo per ventuno ore. Ad ogni modo, la vera prova per Norman sarebbe arrivata a breve: in semifinale avrebbe dovuto vedersela di nuovo con Bambuck e sfidare Fray e, soprattutto, il pretendente alla medaglia d’oro John Carlos.
I lunghi tavoli, i vassoi verdi, i menù scritti in sei lingue e composti con lettere magnetiche affisse sulle lavagnette nere. Le voci, i volti, i colori di tutto il mondo. Qui i tempi e i primati non contano, per tutti c’è da attendere in fila, con pazienza, aspettando il proprio turno. C’è chi la mensa del villaggio olimpico la definisce «l’unica vera democrazia dei Giochi».
John veste una specie di larga tunica bianca, sopra i jeans. Ha un cappello che da lontano sembra una barca fluttuante. Ha finito di mangiare e raggiunge Tommie che intanto sta parlando con Peter Norman.
«Tom, che facciamo, andiamo?».
L’australiano allunga la mano verso John che però la ignora e si rivolge a Smith: «Ehi Tom, ma chi è quel bianco là?».
«Dai, John, non…».
«Ok Tom, ho capito» li interrompe Peter, «lascia stare, io vado. Ancora complimenti, ora però cerca di andare più piano, ok?». Smith e Norman si stringono la mano e intanto ridono. Poi Peter si rivolge a John che sta guardando l’interno della mensa, dove c’è un viavai di persone di tutti i tipi.
«Noi ci vediamo più tardi, Carlos».
«Vaffanculo, Norman!».
«Dopo di te ci vado molto volentieri!» ribatte l’australiano, e si allontana strizzando l’occhio. Tommie scuote la testa, lui e John si guardano, sorridono appena.
«Sei un figlio di…».
«Tom, quello stronzo non lo sopporto».
«È un bravo ragazzo, invece».
«Tom, ascolta, ho visto le notizie di oggi: dicevano che gli studenti morti non sono mica dodici, il numero è salito già a trentotto. Trentotto per la TV messicana, capisci? Immaginati quanti possono essere per davvero…».
«Te li ricordi, da noi, ’Los?».
«Non me li levo dalla testa. Non…».
Una delegazione di studenti messicani del Comité Anti-Olímpico de Subversión era andata in visita alla San Jose State per stabilire contatti con gli atleti del Progetto olimpico per i diritti umani. I giovani messicani avevano detto di voler manifestare, dentro lo stadio, durante la cerimonia di apertura delle Olimpiadi e di essere pronti perfino a morire. Tommie, John, Harry e Lee Evans sarebbero dovuti volare a Città del Messico i primi di ottobre, proprio per manifestare assieme a loro. Questi accordi venivano presi all’inizio della primavera del 1968 quando il movimento degli atleti era forte e le proteste in Messico avrebbero attirato l’attenzione del mondo intero. Ma a Memphis avevano sparato a Martin Luther King, la marcia che il Reverendo aveva promesso all’apertura dei Giochi non ci sarebbe stata e il Progetto olimpico si sarebbe sgonfiato di lì a poco. Tommie, John e gli altri avevano quindi rivisto i propri piani. Adesso gli studenti del Politecnico erano ridotti a un numero da approssimare, da strumentalizzare. Un numero di morti e di scomparsi. O addirittura di morti-scomparsi, cremati negli ospedali o portati fuori città dai militari per non lasciare traccia delle vittime, successivamente stimate in almeno trecento. Di quei numeri e di quelle scene – «peggiori di quelle viste in Vietnam, perché quando sei in guerra almeno ti puoi nascondere, mentre in piazza delle Tre Culture non c’erano ripari» – aveva parlato la «giornalista europea» che era stata quasi ammazzata dalla raffica sparata da un elicottero. Si trattava dell’italiana Oriana Fallaci, che dal letto d’ospedale, non potendo piegarsi su una macchina da scrivere, aveva registrato il suo lunghissimo e dettagliato resoconto su un magnetofono.
«Tom, hai pensato a qualcosa per stasera?».
«Stasera?».
«Quando vinciamo, dico. Ci facciamo sentire no?». John è poggiato coi gomiti su un bancone con i vassoi sporchi.
«Certo che ci facciamo sentire. Ho pensato… qualcosa. E tu?».
«Qualcosa, sì». John si guarda dietro le spalle. «Cosa abbiamo?».
«Oltre ai guanti?» chiede Tommie, anche lui guardandosi attorno.
«Uh-uh».
«Dei cappelli, credo… una sciarpa. Sul podio andiamo coi calzini neri, no?».
Si guardano attorno simultaneamente, come se qualcuno glielo avesse comandato, o un filo invisibile mettesse in comunicazione quel che si agita dentro le loro gabbie toraciche. Bu-bum. Bu-bum. Bu-bum. Hines e Greene sono già saliti sul podio, ma si sapeva che non avrebbero fatto nulla. I prossimi, se vincono, sono loro. In tutta una vita, se ti va bene, ci sono pochi minuti sotto i riflettori. Si può decidere di viverli come richiesto dal protocollo, oppure no.
«’Los?».
«Sì, certo, i calzini. Senti, Tom, portiamoci tutto, non si sa mai».
«Ok» dice Tommie. «Prima però pensiamo a vincere».
Ci saranno ancora un centinaio di persone in mensa, forse di più. Nessuno bada a loro.
Trentacinque secondi ancora. Tommie Smith e John Carlos: il sacrificio e la gloria
di Lorenzo Iervolino (estratto da pagg. 181-187). 66THAND2ND, 2017.
Foto di Jeff Kroot. Marzo, 1968. Carlos e Smith, San Jose State College.
(per gentile concessione){fcomment}