Vivo in quest’appartamento silenzioso da ormai cinque mesi. Spengo le luci presto la sera, appena cala il sole. Non li capisco quelli che continuano a vivere con le luci elettriche: è così bello il buio, accogliente, come un ventre materno. Mi piace guardare i profili degli oggetti illuminati dalla fioca luce del lampione acceso sulla strada. Vedo così poco di loro che non sento neanche il bisogno di immaginarli. Mi rilassa.
Il mio coinquilino non mi rivolge la parola da circa quattro settimane e non posso dire che la cosa mi disturbi. Non ci conosciamo molto bene a dire la verità. Quando sono arrivato qui, lui vi abitava già da molti anni. Si sveglia molto presto la mattina, prima dell’alba, si chiude in camera e ne esce solo per tracannare dell'acqua dal rubinetto della cucina. So che c’è, ma non c'è.
Per quanto riguarda me, faccio una vita che definire tranquilla sarebbe poco. I miei genitori erano morti da un anno quando l’avvocato di famiglia mi comunicò che il vecchio aveva stipulato un’assicurazione sulla vita. Non ci misi molto ad alzare i tacchi da quella casa e andarmene in un'altra zona. Pensai anche di cambiare città, ma qui non mi trovo male. Ci sono alcune persone che mi conoscono, come l’edicolante silenzioso e il tabaccaio unto, giù, vicino alla spiaggia. Non me la sono sentita di abbandonarli.
Ho scelto quest’appartamento perché nell’annuncio si richiedeva un inquilino tranquillo e silenzioso, puntuale con i pagamenti e che non fumasse. L’appartamento ha un balcone con vista sulle montagne: un grosso cambiamento per uno che ha avuto davanti agli occhi il mare fin dall'infanzia. Non si può comprendere il dolore di trent'anni di tramonti, se non si sono vissuti. Se ho un hobby, credo sia quello di mettermi al balcone, sulla mia sedia di vimini, e guardare fuori, quello che succede per strada. Quando i miei erano in vita, capitava che chiedessi dei soldi per andare in vacanza, magari con la scusa di una gita con gli amici, o con un'ipotetica fidanzata. Erano tutte balle. Prendevo i soldi e affittavo un posto in qualche città in giro per il Paese: l’importante era che avesse un balcone da cui affacciarsi e persone di passaggio.
Mi sono sempre trovato a guardare gli altri come animali allo zoo, intenti nei loro andirivieni quotidiani, nelle routine sempre identiche e attenti ai loro bisogni primari. Li classificavo anche. Quando ero molto piccolo avevo poche categorie: femmine, maschi, mamma e papà; ma con gli anni ho scoperto più parole e di conseguenza nuovi gruppi. Ho sempre pensato che si sopravvalutati il peso delle parole nel conoscere la natura intima degli umani: niente è più emblematico di una collezione di vecchi scontrini o di una, seppur piccola, dispensa personale.
Nella mia vita è successo poco o niente, a che servirebbe raccontarla se non per tediarvi? La cosa più importante sono sempre stati loro, quelli là. Ogni tanto, mi sorprendevano a osservarli come fossi in trance e allora mi chiedevano, a seconda dell’età, “vuoi giocare con noi?”; “studi con noi?”; “mi ami?”; e io magari dicevo sì, ma, se devo essere sincero, era solo per studiarli meglio. Non credo che questa passione si possa definire utile in alcuna maniera, credo sia solo una naturale inclinazione: se esistesse un lavoro simile, sarei sicuramente uno dei migliori al mondo.
Quello che veramente mi infastidisce sono le persone che non accettano di farsi osservare, quelli che fuggono lo sguardo e si rintano come animali feriti. Come il mio coinquilino.
Varie volte ho tentato di entrare nella sua stanza, in quei rari momenti dove si recava al bagno o in cucina. Ma la porta, purtroppo, era sempre chiusa a chiave. Ho indagato anche su internet – altra grande risorsa per osservarli – ma le mie ricerche non hanno portato a niente: se ha un profilo social, è sotto pseudonimo e il suo nome e cognome sono troppo comuni per farne scaturire un appiglio, un indizio.
A volte, quando in strada due cani si azzuffano, non osservo neanche più. Una volta una scena simile mi avrebbe dato da fantasticare per ore e ore. Adesso, con la coda dell'occhio, scruto la maniglia della stanza in fondo al corridoio. Possibile che non provi nessun interesse per quello che accade lì fuori? Perché non esce e mi chiede cosa è successo? Sarei deliziato dal raccontargli come il veterinario, il vicino che parcheggia sempre la 4x4 in seconda fila, sia uso portare a passeggio il cane lupo alle 19, ogni sera. C'è sempre la possibilità che incroci l'uomo in sovrappeso con famiglia che vive in fondo alla strada. Lui possiede un maestoso Bull Terrier. Ho calcolato che, ogni due settimane circa, si incrociano proprio qui sotto.
Eppure lui se ne frega. Pare che non abbia né amici né parenti e non ho mai sentito squillare il telefono o suonare al campanello e chiedere di lui. In questo siamo simili, ma io almeno li osservo con amore; lui come può ignorarli così?
Oggi sono tornato nell'appartamento dopo due settimane. Avevo affittato un trilocale sopra un famoso negozio di abbigliamento, in vista dei saldi di fine stagione. È stato magnifico guardarli dall'alto, muoversi a banchi, come gigantesche sardine, verso le porte automatiche e uscirne gonfi e satolli di acquisti. Eppure, nonostante tutto, quando calava il buio e le saracinesche si abbassavano, la luce dei lampioni del centro si rivelava troppo forte nell'illuminare il panorama e mi trovavo a ripensare al coinquilino: chissà cosa stava facendo in quella stanza?
Dopo essermi sistemato sulla sedia di vimini, ho notato un biglietto sul tavolinetto di plastica bianca, quello dove appoggio la soda. L'aveva scritto lui e di suo pugno! Non potevo crederci. Diceva che, assolutamente, nelle prossime quattro settimane, non avrei dovuto disturbarlo. Non c'era firma, ma chi altro poteva averlo scritto?
In quel periodo non facevo neanche più finta di guardare fuori. Piazzai la sedia in cima al corridoio e scrutai per ore la porta chiusa della camera. Le giornate passavano in fretta come non mai. Era un estasi senza fine notare i minimi cambiamenti di rumore che si potevano intuire dalla mia posizione. In quelle settimane non uscì neanche per bere o per i bisogni fisiologici. Ero davvero ammirato. Quanta dedizione alla sua misteriosa causa. Cominciai a volergli bene, a sentirlo come un fratello lontano, dal quale ero stato ingiustamente separato durante l'infanzia e mi ripromisi di invitarlo sul balcone con me, una volta finito l'isolamento.
Dopo tre settimane, per tutto l'appartamento si diffuse un odore nauseabondo. Facevo davvero fatica a respirare, ma tenevo ben chiuse le finestre per evitare che qualche curioso potesse pensare di interromperci. Misi dei tappeti sotto la porta d'ingresso e mi lavai spesso, mettendomi un fazzoletto di stoffa pulito davanti alla bocca ogni quaranta minuti, circa. Non sono uno stupido, anche io guardavo la televisione. Di lì a poco avrei dovuto chiamare la polizia, ma nessuno avrebbe potuto togliermi il piacere di penetrare, da solo, lì dentro e frugare nei cassetti, nella cronologia e nelle tasche dei vestiti dismessi.
Tutto si svolse, infine, molto in fretta. Allo scoccare della quarta settimana, bussai alla porta. Da così vicino, l'odore era davvero insopportabile. Nessuna risposta. Provai con titubanza ad abbassare la maniglia e, con mia grande sorpresa, scoprii che era aperta.
La stanza era completamente vuota, senza mobilio se non per un vecchio letto usurato e senza lenzuola. Nessun segno di vita, presente o passata. Eppure il tanfo persisteva, ancora più acuto e penetrante.
Misi una mano sotto al letto e tastai qualcosa si molliccio e vischioso. C'era del pelame e con le dita lo afferrai e tirai l'oggetto, di poco peso, verso di me. La scoperta che feci fu davvero avvilente.
Cercai fin nei meandri più oscuri del web e confrontai testi della biblioteca locale con note riviste specializzate, ma ancora non mi capacito di come un Papio Erxleben, 1777, un babbuino, in avanzato stato di decomposizione, fosse finito sotto quel letto.
Alessandro Benassi
Illustrazione di Luigi Serafini