Tutto ha inizio nel quartiere di Vieux-Port a Marsiglia, centocinquant’anni dopo la pubblicazione del volume The History of the most notorious pirates, un libro scritto da un certo capitano Johnson, un uomo di cui si ignorava l’identità, uno scrittore di vite strappate al legno che aveva solcato oceani e derubato mercantili e fregate. Nel 1724 l’anonimato in letteratura pagava bene, e il libro ottenne quattro ristampe in meno di due anni. Ce ne vollero duecentoquaranta per attribuire quelle pagine a Daniel Defoe, ricamatore di falsi storici, scrittore.
L’epoca in cui nasce Alexandre Marius Jacob vede il conio del primo registratore di cassa, del motore a due tempi, della lampada a incandescenza e del primo prototipo di televisione al selenio. Anni in cui il padre prepara pasti intoccabili nelle cucine dei mercantili che tracciano rotte verso il nuovo secolo, mentre la madre, ancora minorenne, si dedica all’arte proletaria del mistero della fame: vivono in un bilocale senza acqua ed elettricità, e fanno parte di quel mondo di lavoratori che sarà il motore delle guerre a venire, la carne da macello da tirare in ballo ogni volta che il piatto piange e le industrie fremono. Alexandre divora i libri di Jules Verne e fantastica come tutti i bambini, ma come molti suoi coetanei è costretto a imbarcarsi all’età di undici anni. Il bastimento si chiama Thibet e il suo lavoro di mozzo consiste nello svegliarsi alle quattro del mattino per pulire il ponte fino alle otto e poi passare il resto della giornata al buio della stiva, con lo stomaco che si adegua al rollio e gli occhi vivaci che frugano tra le umanità presenti. Crescere con una ciurma che colleziona tatuaggi e storie di porti impronunciabili, ascoltare le lingue bagnate dal rum di contrabbando e imparare a difendersi. Contano molto le cicatrici che sei in grado di evitare, in alto mare.
A tredici anni si imbarca come apprendista timoniere in un viaggio che fa rotta su Sidney. Decide di disertare dopo aver ragionato a lungo. Ha fatto l’esperienza dei ponti, che sono metafora di una gerarchia sociale in cui il primo ponte è il ballo in maschera della società, dove hanno accesso coloro che decidono, mentre il ponte inferiore è la galera dei marinai irriducibili, degli schiavi e dei detenuti. Sceglie di abbandonare la vita che divide il mondo in due, nello spazio ristretto di una nave. Sbarcato in Australia si dà da fare e impara presto a rubare con stile. Mangiare non è un reato. Nelle ore che lo separano dai furti impara la lingua inglese e memorizza tecniche originali per scardinare porte e allargare orizzonti. Quando viene a sapere di una baleniera pronta a salpare, chiede di salire a bordo. Gli uomini che lo accompagneranno in quel breve tratto di vita hanno l’aria di essere diversi dai marinai incontrati fino ad allora: sono pirati feroci e affamati. Durante un abbordaggio a una nave che verrà svuotata di ogni bene, i pirati uccidono tutto l’equipaggio. Alexandre non potrà accettare quella violenza e ne sarà condizionato per tutta la vita. Riuscirà a tornare a Marsiglia, verrà imprigionato e otterrà la scarcerazione grazie alla sua giovane età.
La malaria, tra le cicatrici invisibili acquistate sul campo, lo immobilizza per giorni su un lettino. Lascia la marina dopo aver tentato la strada dell’oceanografia. Diventa apprendista tipografo, frequenta i circoli anarchici, si innamora di una giovane donna, legge Malatesta e Kropotkin, riunisce le idee che si è fatto viaggiando e coltiva la sua vita come un uomo libero.
Visita spesso la redazione del giornale anarchico «L’Agitateur», dove viene a sapere delle lotte intestine nelle fabbriche, della guerra di posizione fatta dai socialisti nei confronti dei libertari, delle decapitazioni, delle fucilate, degli attentati e del sangue che scorre velocemente.
Affina le tecniche imparate in Australia e si mette sulla piazza come ladro, puntando a obiettivi ricchi, nei quartieri alti, negli appartamenti di lusso e tra gli scaffali delle gioiellerie. Arrestato, viene imprigionato per sei mesi. A vent’anni è un uomo che conosce la storia delle privazioni: disegna una linea che assomiglia a una frontiera, la scavalca e guarda oltre; riconosce la strada che lo porterà a fondare il gruppo anarchico illegalista «Les travailleurs de la nuit».
In questa fotografia, scattata nel Dipartimento di Polizia parigina nel 1903, Alexandre (in basso a destra) ha venticinque anni ed è stato appena arrestato con altri due Lavoratori della notte. La primavera parigina si apre con una delle notizie più importanti della cronaca francese. L’uomo che ha compiuto più di cinquecento furti, che ha colpito anche oltre frontiera, tra ricchi spagnoli, italiani e belgi, si ritrova in cella per un furto andato male. I quotidiani francesi distillano la notizia raccontando gli aneddoti che circondano la figura di Alexandre Marius Jacob, il ladro che si firmava Attila vergando le lettere dedicate ai derubati, l’uomo che toglieva ricchezze a chi ne aveva troppe per finanziare i circoli anarchici e per invitare a cena gli orfani e i vagabondi, esperto in travestimenti (amava indossare i panni del prete) e in attacchi di epilessia, osservatore acuto della natura (utilizzava un rospo che smetteva di gracidare quando percepiva una nuova presenza), capace di evadere (sei anni prima, dopo una condanna a cinque anni) dal manicomio dove si era fatto trasferire perché pazzo, grazie all’aiuto di un infermiere anarchico, Royère; due amici travailleurs lo aspettavano al muro di cinta con una corda.
Interpretò molte parti, ma era particolarmente bravo negli svenimenti. Una notte sbancò un tavolo al casinò di Montecarlo: preparò la scena con cura; elegante, vincente, apprezzato dalle dame che si riunivano sotto i lampadari per cercare amanti facoltosi; tenne banco per tutta la notte, finché non venne l’ora di accasciarsi a terra per lasciare spazio al suo complice. In seguito a un agguato della polizia, fugge con un vistosa ferita sulla fronte e si fa scritturare come senatore romano in una rappresentazione del Quo vadis; passa le notti dietro il sipario mentre la polizia lo cerca nei covi anarchici.
Come tutti coloro che ritengono un sistema di regole immorale, decide di darsi un codice etico, e fa in modo che i suoi collaboratori lo rispettino. Non si toccano medici, insegnanti e scrittori. Alexandre pensa che si debba rubare ai parassiti e non alle persone utili alla società. Rientra in questo canone il celebre furto mancato a casa di Pierre Loti. Quando Jacob si rese conto che non era l’abitazione di un tenente di vascello ma quella di un grande romanziere, decise di rinunciare al bottino e di lasciare un biglietto di scuse; allegò al biglietto una banconota per ripagare il pomello di una porta e un vetro rotto.
Due anni dopo l’arresto, nel marzo del 1905, Alexandre comparirà davanti al giudice e pronuncerà un manifesto anti-repressivo, una silloge di idee libertarie incomprensibili per la platea di faccendieri, giudici e avvocati presenti quel giorno nell’aula ad Amiens: «Il lavoro, al contrario di ripugnarmi, mi piace. L’uomo non può fare a meno di lavorare: i suoi muscoli, il suo cervello, possiedono un insieme di energie che deve smaltire. Ciò che mi ripugnava era di sudare sangue e acqua per un salario, cioè di creare ricchezze dalle quali sarei stato sfruttato. In una parola, mi ripugnava di consegnarmi alla prostituzione del lavoro. La mendicità è l’avvilimento, la negazione di ogni dignità. Ogni uomo ha il diritto di godere della vita. Il diritto di vivere non si mendica, si prende».
Condannato a vita, entrerà nel carcere di Cayenne nel 1906 con il numero di matricola 34777. Sarà la sua “ghigliottina secca”, un modo come un altro per ucciderlo. Tentò evasioni rocambolesche e nessuna gli riuscì. Costruì zattere che non duravano. Finse la morte apparente ma le guardie carcerarie non gli credettero. L’ergastolo fu commutato in vent’anni di lavori forzati nella Guyana Francese. Sopravvisse a tutti i lavoratori della notte. Soffrì l’odio del suo tempo e le pene del carcere. Mentre in Europa si faceva la guerra, Alexandre scontava lunghe settimane che diventavano mesi. Dopo una lunga serie di appelli, fu scarcerato e ritornò in Francia nel 1927. Fece l’ambulante, si risposò, diede a se stesso la possibilità di parlare degli orrori della galera ed entrò nella rete che supportava gli obiettori di coscienza. Scrisse e diede fiato alle sue idee durante i giorni che videro Sacco e Vanzetti finire sulla sedia elettrica. Mentre le nazioni si armavano per una seconda guerra, Jacob tentò la strada della resistenza, prima in Spagna e poi in Francia. Ospitò e protesse molti fuggitivi, dissidenti e partigiani. Vide la sua seconda moglie morire, e nel 1954 decise di andarsene. Diede un pranzo per nove bambini poveri. Scrisse un biglietto e accarezzò il suo cane, Negro, cieco e sordo. Gli iniettò una siringa di morfina. Fece altrettanto con il suo braccio. Si stese. Morì.
Maurice Leblanc, l’autore delle storie di Arsenio Lupin, ha sempre negato di essersi ispirato a lui.
Marco Lupo